Testi Critici
e Introduttivi sulle opere di David Cirese
Recensioni
"Matrici"
Nuova Bottega dell'Immagine
- Roma 1991
(Slash
& Burn technique)
E' proprio vero
che non c'è apparentemente limite a ciò che può ancora
essere inventato in fatto di costruzione di linguaggi fotografici. Basta
avere gusto, fantasia e ignorare i critici, che, come nel caso di H. Gernsheim
nel 1961, sentenziò a proposito della fotografia "non oggettiva":
...negazione di tutto ciò che è autenticamente fotografico:
in breve, un "suicidio fotografico".
Questa è
la strada che, in gran parte inconsapevolmente, ha battuto il giovane artista
David Cirese. L'artista è partito dalla osservazione della realtà
ripresa nella sua semplicità apparente, ottenendo diapositive che
possono essere senza alcuna cattiveria definite banali. Ma all'interno
di questa banalità ha scorto elementi formali ancora in gran parte
inespressi e che il solo mezzo fotografico non riusciva a far emergere;
allora investigando su proprietà e limiti tecnici della emulsione
e del supporto della diapositiva è intervenuto, dapprima incidendo
la superficie lungo quelle linee fantasma che solo il suo occhio intravedeva,
e, successivamente, manipolando l'immagine con il calore, fino ad ottenere
quel risultato che in termini di forma e colore gli sembrasse più
completo e significativo.
Non c'è
dubbio che la dilatazione delle ferite superficiali e lo slittamento cromatico
dovuto ad alterazioni chimiche dei copulanti abbiano costruito una nuova
identità visiva, che senza rinunciare al realismo da cui si è
mossa, rivela l'intenzione dell'autore di investigare la forma fino a raggiungere
una purezza quasi naif, una matrice elementare e primaria, forse un archetipo.
Il risultato finale è una superficie percorsa da segni, in cui l'atto
volitivo dell'autore emerge in tutta la sua efficacia creativa.
Sebastiano Porretta
"Distruzione
Generatrice"
Bar del Porto - Porto
Ercole - Monte Argentario (GR) - 1995
(Slash
& Burn technique)
Queste foto
di David Cirese fissano il reale nel momento della sua vertigine. Esiste
un punto, infatti, in cui il reale abbandona la sua tranquilla stabilità
e comincia a proliferare in universi paralleli.
Ci sono anelli
deboli nella realtà, legami precari pronti a spezzarsi sotto uno
sguardo curioso e violento. Lo sguardo di Cirese si insinua fra gli interstizi
molecolari con una logica terroristica, e approfittando di impercettibili
differenze chimiche apre delle falle nella realtà da cui fuoriescono
galassie potenziali.
La pacifica
coabitazione degli oggetti viene continuamente rimessa in gioco, e sotto
la loro apparente serenità fisica cominciano a intuirsi infinite
stratificazioni di senso: come se un genio maligno producesse instancabilmente
dei mondi ad oltranza. Cirese sembra voglia fomentare in noi un sospetto
infinito verso ciò che appare, una drammatica equazione sguardo-sospetto
per un reale che non fa che crescere su se stesso, che non fa altro che
smentirsi e ricrearsi. Volevamo impossessarci del reale fissandolo a delle
ottuse formule, e invece questo risorge sempre da un'altra parte.
Parafrasando
uno scrittore contemporaneo queste foto non vanno né viste né
vissute, ma bisogna precipitarvi: precipitare giù per quei pozzi
dagli infiniti possibili scavati da un fotografo terrorista.
Andrea Colace
"Slash
and Burn"
Galleria Gran Caffè
Bernasconi - a cura dell' Istituto Superiore di Fotografia - Roma 1993
David Cirese,
esplorando su proprietà e limiti tecnici dell'emulsione e del supporto
della diapositiva, si esprime con un linguaggio artistico diretto a modificare
l'oggetto rappresentato, seguendo un criterio forse inconsapevole di "sradicamento"
della visione oggettiva della realtà. Nelle sue immagini riesce
a movimentare i contorni dilatandoli, a sfumare i colori, a incidere sui
volti; tutto questo per appropriarsi di ciò che lo circonda, andando
oltre l'apparente staticità, per dare significato originale e creativo
non solo ad immagini di soggetti cui comunemente si attribuisce significato
simbolico, ma anche a quel genere di realtà che i nostri occhi sono
soliti guardare con scontata indifferenza. L'artista si esprime con un
linguaggio efficace e diretto, apparentemente dissacratorio nei confronti
della tecnica fotografica tradizionale, ma in realtà ci fa partecipi
di nuovi originali sviluppi comunicativi.
Maria Anna Tomassini
"Auschwitz.
Il Buio nella memoria"
Nuova Bottega dell'Immagine
- Roma 1995
"AUSCHWITZ COME
METAFORA"
La prima tentazione
che abbiamo nella comune esperienza di Auschwitz (sia essa attraverso un
servizio fotografico o una visita diretta) è di affollare quei luoghi
fatali degli autentici protagonisti e di ripercorrere con la memoria le
stazioni di quel calvario dell'Uomo.
Ma più
ci diventa chiara e distinta la visione di quel passato, e più ce
ne distacchiamo come da un libro letto e frettolosamente richiuso. L'esperienza
storiografica porta all'oggettivizzazione degli eventi che l'uomo ha vissuto:
e l'oggettivizzazione produce solo "cadaveri".
Lo sguardo
dello studioso, infatti, inchioda l'oggetto del suo desiderio ad uno stato
di eternità irreale, e più si perfeziona il rigore della
ricostruzione storico-scientifica, più l'uomo viene privato della
spaventosa ricchezza di senso di cui gli eventi stessi erano gravidi.
Non a caso
Freud invitava i pazienti ad una analitica rielaborazione del loro passato
affinché questo smettesse di "agire" sulla psiche del soggetto attuale.
Ma per l'evento di Auschwitz è invece necessario fare in modo che
questo "trauma" dell'umanità non venga disinnescato, che continui
a provocare i contemporanei presentandosi come metafora dell'uomo occidentale,
deriva di autoritarismo e di viscerale intolleranza per le "differenze"
sempre possibili nei meccanismi fragili delle moderne democrazie.
Per fare di
Auschwitz un'esperienza psicologica attualissima, e non blindare quei fatti
in un passato per definizione irripetibile, si consiglia di ascoltare il
silenzio siderale che regna oggi sul campo di concentramento: queste fotografie
di David Cirese ce ne offrono l'occasione.
Nella serie
di particolari scelti sembra quasi si tenti di cancellare volutamente i
riferimenti storici troppo scoperti, o almeno di ridurre al minimo quelli
immediati; e mentre si evita giustamente una innaturale spettacolarizzazione
dell'evento si colgono segni di una scandalosa genericità. Una finestra,
una scrivania, un cortile ... siamo ad un passo dal grado zero del senso,
punto di non ritorno dove il campo di concentramento si confonderebbe per
sempre con una qualsiasi periferia metropolitana; ma un attimo prima che
lo zero assoluto venga raggiunto, una pur minima contrazione della memoria
ci rimanda quel passato incredibile con la violenza di un atto di nascita.
Il valore di queste immagini, insomma, sta proprio nel tentativo di portare
il luogo di Auschwitz ad un passo dalla scomparsa del senso, affinché
il rifiuto inevitabile dello spettatore a questa meta provochi una reazione
incontrollata della sua memoria, che lo faccia direttamente assistere al
sorgere stesso della Violenza assoluta nella storia..
Non semplice
memoria, quindi, ma intermittenza continua di memoria e silenzio, un silenzio
assordante che renda più coinvolgente il ricordo della tragedia,
e insieme trasformi Auschwitz in metafora dell'uomo figlio dell'Illuminismo,
metafora della tentazione in lui mai sopita di imporre all'Altro la sua
volontà di potenza.
Andrea Colace
"Auschwitz.
Il Buio nella memoria"
Villaggio Globale - Photogrammatica
- Roma 1993
David Cirese
ci invita ad intraprendere un doloroso viaggio attraverso la memoria del
nostro passato collettivo.
La tragicità
della vita-morte nel campo di concentramento di Auschwitz è magistralmente
narrata con un linguaggio espressivo fotografico pulito, nudo, essenziale,
che sembra volerci proporre un punto di osservazione assolutamente reale
di ciò che è stato vivere la non-vita, tra quelle mura infinite
di mattoni, che formavano baracche assolutamente impersonali in cui uomini,
donne e bambini erano accerchiati come bestie da inequivocabili fili spinati
che sembrano sottintendere che ogni eventuale idea di fuga tende a realizzarsi
più come suicidio che come ricerca se pur disperata della libertà.
L'artista volutamente
preferisce non accentuare la tensione con inquadrature spettacolari o fuorvianti,
non crea effetti illusori, non si intromette tra noi e la desolazione di
quei luoghi così tetri e miseri ma ci stimola - anche grazie ad
una atmosfera grigia nei toni - a percepire quel senso di vuoto e di nudità,
senza dubbio i principali protagonisti di uno spazio senza tempo. Anche
la scelta dell'assoluta assenza del colore, oltre ad aumentare l'impatto
emotivo nell'interpretazione immediata dell'immagine, ci costringe a guardare
con occhi vicini a quei giorni, a quegli anni; è come se non si
vivesse quel logico ed effettivo distacco storico del tempo: la divisione
tra noi, oggi, 1994 e loro, ieri, 1944.
Il fascino
della fotografia di David Cirese si coglie nella magia seppur spettrale,
in cui uno spazio di tempo così lungo come quello di una vita viene
contratto attraverso l'immagine diretta, grigia, nuda, di quei luoghi che
mai vorremmo aver visto ma che la dignità della memoria ci obbliga
a non dimenticare.
Maria Anna Tomassini
"CyberFaces"
Ci chiediamo
chi siamo e non troviamo risposte o almeno non troviamo risposte definite,
chiare, precise. Ed è infatti la sfera dell'indefinito quella che
David Cirese ci incoraggia a percorrere. Ma l'artista non ci invita a scegliere,
perché l'impatto che riceviamo nel guardare questi ritratti è
talmente forte che è come se ci sentissimo quasi inconsapevolmente
trascinati in un viaggio, là dove gli orizzonti sono fin dall'inizio
equivocabili.
La vita si
confonde con la morte, il reale con il surreale, la bellezza con la bruttezza,
ma dove c'è una trasparenza dello sguardo, quella sì, decisivamente
inequivocabile.
E se tentiamo
contro ogni evidenza di non volerci riconoscere in quei volti così
tanto modificati, come non poter identificare quegli sguardi con il nostro
sguardo.
Lo sguardo
del nostro io, l'inconscio che trasforma fiamme immaginarie in un volto
irragiungibile, occhi su visi scolpiti nella pietra eterna ...
Perfino la
tanto ricercata e impossibile onnipotenza viene dissacrata, non c'è
più certezza e così anche le parole di chi scrive sono inutili
accessori, forse l'ultimo tentativo di spiegare l'inspiegabile, là
dove non c'è niente da capire rimane solo l'ironia e il coraggio
di comprendere che questo gioco del trasformarsi, dilaniarsi, ricongiungersi,
dissacrarsi è un gioco che si chiama vita.
Un gioco talmente
serio e difficile da vivere, che in ogni situazione diversa la nostra capacità
di adattamento ci ha obbligato a far uso di tante ed infinite maschere.
David Cirese
ci svela cosa c'è dietro la maschera, ma ci pone anche un inquietante
dubbio: è la maschera che copre il vero, o è il vero a fingersi
tale e ad essere la prima grande eterna finzione?
Infatti la
superfice, anzi le più superfici di questi "volti" sono sovrapposte
a tal punto da non saper più riconoscere ciò che era prima
da ciò che si è creato dopo. La dimensione spazio-temporale
è stata dilaniata come se la scansione ritmica del tempo, ultimo
aggancio alla ragione dell'uomo, non avesse più alcun motivo di
esistere.
E i colori
non sono i colori della natura, della vita reale, perché è
il sogno il grande protagonista di questi ritratti, così come l'inconscio
sembra essere il grande regista di questi "volti".
L'artista vive
queste immagini come un luogo da cui riflettere sulle tante molteplicità
dell'io, e la sua invenzione artistica non sta semplicemente nel sovrapporre
immagini a noi apparentemente assurde, non si tratta della solita tecnica
di fotomontaggio, ma è un desiderio forse prima così poco
esplorato di porci di fronte all'infinito gioco delle parti.
Un puro atto
teatrale.
Maria Anna Tomassini
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