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 26 CLICK x 17 CIAK
 TORNA ALLE FOTO 
 
 
 RAVVICINATE DISTANZE FOCALI
 Fotografia e cinema allo specchio
  C’è un libro bellissimo, intitolato “Ignoto a me stesso”,
che raccoglie
 le immagini dei più grandi scrittori del secolo. Un’opera di
fine
 millennio concepita 15 anni fa e rivelatrice dei necessari confronti
tra
 la fotografia e gli altri linguaggi. Quel volume faceva parte di un
 progetto che, mi pare, aveva l’obiettivo di prendere in considerazione
 le diverse discipline del vedere, in relazione con quelle del sentire
 artistico.
  Non so per quale ragione, ma il lavoro si interruppe, ed oggi,
a
 distanza di tempo, mi sembra che questo progetto, “26 click x 17 ciak”,
 possa essere considerato un tassello importante, che si incastra
 perfettamente in quella logica desiderosa di conoscere la natura delle
 arti visuali della storia contemporanea.
  Devo dire subito che fra le diverse possibilità di indagine
e ricerca,
 da sempre prediligo di gran lunga quella dell’interpretazione. Trovo
 quest’ultima forma espressiva perfettamente aderente alla vita
 scolastica e formativa che  distingue questo Istituto e, fortemente,
 più vicina alla natura stessa della fotografia.
  Ho sempre pensato, infatti, che la fotografia è quel che
resta della
 messa in scena: il risultato, o meglio ciò che segna la differenza
fra
 immagini fisse e immagini in movimento. E se la messa in scena è
cinema,
 teatro e televisione, è giusto, come credo sia stato fatto in
questo
 caso, che l’incontro tra i diversi linguaggi fosse fissato proprio
 sull’orlo di un precipizio capace di resistere alla nostalgia, di
 superare la finzione e di definire i perimetri di un confronto che
deve
 andare, necessariamente, oltre il semplice apparire.
  Dunque, nessuna affermazione di primato. Nessun back-stage, nessun
 dietro le quinte a raccogliere le magie del cinema, ma uno sforzo
 continuo nella direzione di una costruzione di un rapporto paritario
fra
 due media che pensano all’inquadratura come elemento principale
 dell’agire e del comunicare.
  Da queste immagini ma soprattutto dal dialogo interiore che ne
è
 scaturito, emerge una poetica dai tono confidenziali, quasi dialoghi
 registrati tra fotografi e registi, tra persone e persone, dai quali
mi
 è sembrato di capire che ogni scatto si sia prodotto grazie
ad uno
 scambio continuo e reciproco di curiosità.
  Così i primi piani sono l’occasione per conoscersi meglio.
Ti scavano
 nelle pieghe più nascoste del volto e non ammettono vergogna.
Dei piani
 sequenza, invece, viene salvata la complessità, ingannevoli
e fintamente
 “risparmiosi” ti spingono, per forza di cose, al centro delle
 contraddizioni, fino a mostrare leggere vedute e trattenere necessarie
e
 tenue sospensioni.
  Ma per vedere non ci vuole solo la mano. Ci vuole cortesia, gentilezza,
 eleganza nei movimenti, proprio come per certi sguardi, mirati da
 lontano e poi ravvicinati nello schermo, ingranditi nella loro
 segretezza dagli obiettivi.
  Naturalmente, qualche azzardo è concesso. Manipolazioni
sulle superfici
 autosviluppanti, trasferimenti dell’emulsione, come certi attacchi
 sull’asse, come certi controcampi rovesciati. E’ solo così che
si crea
 lo spazio per la linea dell’orizzonte, per nuvole in viaggio, per
 carrellate su città illuminate, per le voci fuoricampo, per
i sentimenti
 srotolati, per le parole allo sbaraglio, quelle vere, proprio come
 queste fotografie.
  
                    
Denis Curti
     Direttore della Fondazione Italiana Fotografia
  
 
  
  
  
LO SPECCHIO DI NARCISO
  
 Immagine fissa/immagine in movimento, ritrarre chi ritrae, fotografare
 chi filma, foto come fotogramma, come messinscena, come cinema. I
 rapporti tra fotografia e cinema, due linguaggi sostanzialmente diversi,
 sono molteplici e complessi – incontro o scontro? – e inducono a nuovi
 interrogativi nel caso presente di fotografie scattate a registi di
 cinema.
 Scatti giovani, dedicati a registi giovani. Giustamente, si tracciano
 segni nuovi nell’atlante del cinema italiano, dominato da sempre (ma
è
 archeologia, ormai) dai baffetti da spadaccino di Blasetti, dal profilo
 rinascimentale di Visconti, dalla faccia facciosa di Fellini, dagli
 aristocratici capelli d’argento di De Sica, dalla nervosa magrezza
di
 Germi, dalla secca autorevolezza di Antonioni, e così via.
 Ora si affrontano altre facce, scelte tra i cineasti ultimi o penultimi,
 arrivati sulla scena.
 Anche il concetto informatore del “ritratto” è nuovo. Non più
fotografia
 da studio, con le luci ben posizionate e la posa compunta del soggetto,
 ma Polaroid, ossia uno scatto improvviso, unico, dallo sviluppo
 immediato e irripetibile.. Non è solo questione di tecnica,
o comunque
 non di mera tecnica fotografica, in quanto si cerca di adeguarsi in
 certo senso alle nuove modalità di ripresa cinematografica,
che accanto
 alla tradizionale cinepresa affiancano il video, capace di restituire
 istantaneamente il risultato della ripresa. E a proposito di Polaroid
 ricordiamo tutti la sua presenza in film come Cersasi Susan
 disperatamente, Thelma & Louise, Alice nelle città : se
non si può
 parlare di affinità tra i due mezzi espressivi c’è certamente
 complicità.
 Ciò che conta comunque (come sempre) è la resa del personaggio
 prescelto. Qui il discorso si fa interessante.
 Cosa dire del ritratto? Farmi vedere una faccia non basta, deve farmi
 conoscere un personaggio. Una fortunata mostra milanese di ritratti
 pittorici si intitola “ L’anima e il volto” in quanto punta alla
 scoperta dell’animus di un determinato soggetto attraverso i tratti
 fisiognomici, l’atteggiamento, il vestito, lo sfondo del quadro.
 Nel caso di un regista di cinema la faccenda si complica: l’autore
 dell’immagine fissa può (o deve?) farmi conoscere sentimenti
e pensieri
 del creatore di immagini in movimento? Può (o deve?) riflettere
in
 qualche modo nell’immagine come il ritratto concepisce il cinema o
 addirittura farci intravvedere dietro i suoi occhi i film che ha girato?
 Non esageriamo. Davanti ad ogni fotografia (come ad ogni quadro, ad
ogni
 composizione musicale, ad ogni film) dovremmo allora arrivare con una
 preparazione specifica, sapere tutto, ma proprio tutto ciò che
sta a
 monte del risultato, il che non è sempre facile, neppure possibile.
 Certo però che un minimo di pre - conoscenza aiuta.
 Guardiamo alcune delle immagini scattate dagli “allievi-fotografi” e
dai
 professionisti dell’Istituto Superiore di Fotografia & Comunicazione
 Integrata (l’etichetta mette in rilievo l’intreccio dei modi
 espressivi): alcune immagini, non tutte, questo non è un regesto
 notarile della mostra, le mie sono soltanto notazioni impressionistiche
 un po’ casual.
 Alcuni registi fanno riferimento alla loro professione.
 Silvano Agosti, per esempio (quello, fra l’altro, di N.P. il segreto,
 D’amore si vive, Quartiere, Uova di garofano), si appoggia sornione,
gli
 occhiali sulla punta del naso, ad una pila di pizze (non sue, mi pare:
 ma giustamente Agosti è anche un propositore di film altrui,
oltre che
 autore in proprio). Un’altra immagine di Agosti lo vede infatti infilare
 la pellicola nella “stella” di un proiettore.
 Accanto ad un proiettore (aggeggio utilizzato sia in cinema che a
 teatro) è Pino Quartullo, e Marengo ci guarda attraverso l’inquadratura
 rettangolare formata dalle mani, come fa il regista quando non ha il
 classico mirino appeso al collo.
 Felice Farina ( Sembra morto ma è solo svenuto, Affetti speciali,
Sposi,
 Condominio, Ultimo respiro, Bidoni)  siede con una certa ostentazione
di
 sicurezza su una sedia “da regista” un po’ particolare, più
che altro
 una imitazione dell’originale, in un luogo che potrebbe essere un teatro
 di posa o un capannone per le prove. Il cinema di Farina, che viene
 dall’avanguardia teatrale, è all’insegna dell’economia (una
volta ha
 detto :”La parola d’ordine del nuovo cinema italiano dovrebbe essere:
 riadattare le idee alla situazione concreta del set”) e sempre sul
 confine fra serietà e burla, sensazione che si respira nella
foto che lo
 riguarda.
 Scherza scopertamente Leone Pompucci (Mille bolle Blu, ma anche
 Camerieri, commedia amara dove il sorriso si inacidisce per il teatrino
 di mostri che scorre davanti ai nostri occhi), che a sua volta in un
 capannone palestra, sembra introdursi in un training per scombussolare
 le regole dell’esercitazione.
 Di Fulvio Ottaviano (Cresceranno i carciofi a Mimongo) il fotografo
 compone un collage, mostrandone diversi aspetti: di faccia, di profilo,
 da dietro e nella parte superiore della foto il regista ha le braccia
 staccate, spalancate, che sembrano abbracciare tutto il mondo. L’ironia
 domina sovrana.
 Donatella Maiorca (Viol@) si propone all’obiettivo sorridente,
 pacificata, ben sistemata su una poltrona, staccata su uno sfondo nero,
 capelli a caschetto, mani irrequiete, blue jeans con strappi decorativi.
 Una donna del nostro tempo, cresciuta a pane cinema e Internet:
 Ferzan Ozpetek (giovane regista di origine turca formatosi a Roma)
 somiglia tanto a Kevin Spacey ed è seduto sui gradini di una
scala con
 un atteggiamento di finta trascuranza che fa tanto “intellettuale”.
E’
 suo Il Bagno Turco – Hamam, una pellicola che invece mette in scena
le
 pulsioni elementari, “dove il recupero dell’istintualità diventa
una
 conquista di libertà” (Morandini).
 Se in queste ultime fotografie elementi dello sfondo aiutano in qualche
 modo a comporre una personalità (o a definirla per contrasto?)
per altre
 – visi in primo piano, che riempiono dunque tutto lo spazio – l’analisi
 del personaggio è meno facile.
 Marco Risi appare quasi come “il Pensatore” di Rodin, serio, riflessivo,
 penetrante. Dopo Vado a vivere da solo, Un ragazzo una ragazza, Colpi
di
 fulmine diceva:”Come regista credo di essere migliore di ciò
che ho
 fatto finora” e l’atteggiamento della foto sembra consolidare oggi,
 questa convinzione di ieri. Successivamente, infatti, il Risi più
 giovane (il fratello Claudio è di tre anni più “vecchio”)
girò film
 “tosti” e inchieste realistiche e coraggiosi: Soldati 365 all’alba,
Mary
 per sempre, Ragazzi fuori, Il muro di gomma, Il branco, L’ultimo
 capodanno.
 “Se uno ha veramente voglia di fare una cosa, la fa” disse in
 un’intervista: il decisionismo di questo nostro cineasta ha in effetti
 un suo riflesso nella foto che lo concerne.
 E’ stato citato Claudio Risi. Quest’ultimo è ritratto in una
foto
 manipolata in sviluppo, i contorni sfumano, i colori garriscono, lo
 sguardo diventa perforante, il sorriso quasi da Monna Lisa. Attivo
tra
 cinema e TV, il primogenito di Dino Risi afferma esplicitamente che
il
 cinema non è arte, e che, “ se anche il cinema avesse una musa,
sarebbe
 una musa puttana perché manipolata da troppe mani”. Manipolata,
appunto.
 Altra foto di questo tipo, cioè con interventi successivi, è
quella che
 ritrae Alessandro D’Alatri, : sembra presa attraverso un reticolo,
è
 come se ci trovassimo di fronte il personaggio di un mosaico, i
 lineamenti si smarriscono un po’ e l’atmosfera generale è quella
di un
 quadro antico. Il che sconcerta magari un po’ per un giovanotto dei
 nostri tempi, ma occorre anche osservare che questo ex-attore bambino
e
 regista pubblicitario, dopo aver proposto con piglio scanzonato una
 commedia di un filone  di provincia (Americano Rosso) passando
 attraverso una storia di quotidiana diversità (Senza Pelle)
è arrivato a
 raccontare gli anni di apprendistato di Cristo (I giardini dell’Eden)
 giungendo così ad esprimere un pensiero mistico, abbracciando
insieme
 antico e moderno, eternità e presente.
 Mi fermo qui, l’avevo detto che questa non è una trattazione
 sistematica. Mi pare bello, comunque, che dei giovani fotografi abbiano
 voluto riprendere giovani registi, persone che di mestiere puntano
 l’obiettivo su altri.
 “Puntati” a loro volta, insomma.
 Un incontro fertile di ingegni “cugini”, un lavoro in comune che getta
 fonti e crea intrecci, in chiave con la sinestesia che fa da fondamento,
 oggi, al mondo della comunicazione. Fotografia che si fa racconto e
 biografia, che esige in un certo modo una messinscena.
 Click e ciak, due momenti alternati dello stesso passo, e soprattutto
un
 abbinamento che ci provoca e ci costringe “ad essere guardati”, oltre
 che a guardare: lo spettatore, insomma, diventa oggetto oltre che
 soggetto, contaminato per così dire da questo doppio percorso
dove, se
 chi inquadra è inquadrato, chi osserva (il destinatario dell’immagine)
è
 osservato a sua volta dal personaggio ritratto.
 Non per niente lo schermo è uno specchio. Lo specchio di Narciso?
        
            
Ermanno Comuzio
  
  
  
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