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INTRODUZIONE


 
    Poiché l'arte fotografica del ritrarre, se non manca di un intervento intellettuale e non è piattamente naturalistica, riflette sempre uno stile, si può asserire che lo stile in cui si riassume la originalità di Maurizio Valdarnini è nella meditazione, nel raccoglimento, nell'appropriarsi del carattere di colui che viene ritratto, in modi che potrebbero escludere la improvvisazione, anche se non manca neppure a lui il coup de foudre, la scoperta, l'incontro con l'imprevisto. Ma la sua tecnica fa a meno, di regola, della velocità strumentalizzata, che per altri può essere il guizzo rappresentativo anche poetico: istante che, nella scelta di Maurizio Valdarnini, non viene privilegiato, perché il più delle volte gli potrebbe vietare di riflettere, e in un certo senso tradire la propria sensibilità. Allo scatto a lampi serrati Valdarnini mostra di preferire la preparazione argomentata, sentita dentro, la ricerca di motivazioni più profonde, la piena intelligenza dell'umano e dell'ambiente.

    La sua ricerca è di tipo antropologico: il ragionamento assume quasi il rigore scientifico, ma per un risultato d'arte. Secondo il metodo che ha scelto razionalmente Valdarnini considera il colpo rapido, che ruba l'attimo, e una maniera che, ovviamente, non può non rispettare, ma sarebbe anche un impedimento per pensare. A lui interessa afferrare la realtà immediata, che può essere anche condizionata dal caso, ma soprattutto studiarne il significato intimo, facendosi guidare dall'istinto, e sempre ubbidendo alla tecnica di cui si è ragionatamente impadronito negli anni. Il suo "ritratto" non esclude la sperimentazione. Il personaggio catturato dal suo occhio fotografico è capito, quasi spogliato del superfluo, messo a nudo, assorbito. Così il volto di Balthus o di Oren, di Lavia o di Scalfari ci dà il personaggio, ma non nell'avventura dell'incontro imprevisto, bensì rispondente all'idea dell'artefice, basata sulla comprensione del soggetto.

    C'è poi il suo momento sperimentale dell' "immagine in movimento", teorizzato da Gilles Deleuze e cui danno spunto gli scatti su Fabio Mauri, Pietro Consagra, Luigi Ontani. Qui la ricerca diventa quasi cinematografica, ma non è la fotodinamica che parte da Marey e arrivas ai Bragaglia. E' piuttosto lo "spostamento minimo" dell'immagine, che non si realizza quindi in una sola inquadratura registrante e raggruppante gli stati intermomentali, ma è seriale, in progress, vicina al film, senza voler essere film. Ma non è detto che questa ricerca fotografica, che ha analogie con quella di Kiarostami "fotografo", un giorno non possa diventare anch'essa cinema. 

    Insieme al ritratto dell'essere umano, Valdarnini ha eseguito anche una originale serie di ritratti di oggetti, che sono più che "nature morte", ed anzi costituiscono per lui un fenomeno analogo a quello umano. L'approccio è lo stesso.
E' la luce che distingue e dà valore all'oggetto, lo rende, da occasione minima, monumento, né più né meno del pittore che studia e ricrea la natura morta. Qui la visione di Valdarnini partecipa insieme del classico e del moderno.
Il suo studio della luce è costante, e viene da lontano, ma a volte l'attenzione per la luce, che per lui è fondamentale, si concretizza con l'incontro momentaneo. Quindi si può parlare anche per lui di intuizione immediata. Non manca mai la fortuna che, quasi magicamente, fa nascere "il momento buono". La fortuna e il caso hanno molte variabili.

    La luce condiziona gli oggetti, li esalta, o li deforma, o li mortifica, con la sua ondata atmosferica ma anche con gli impedimenti della distanza.
Rende la vita interna dell'oggetto ed esprime la sua anima. E come nei ritratti il tocco di Valdarnini si avvale sempre, quale pennello personale, della luce, altrettanto avviene quando tratta gli oggetti normali dai quali quasi conduce una "caccia d'identità". E' la luce che fa diventare gli oggetti personaggi. Così una pagnotta su travertino, pur restando se stessa, diviene il ritratto di un totem ancestrale; un panno è il turbante di un personaggio del Seicento, come se l'avesse dipinto un maestro dell'epoca. L'uovo si affaccia come un volto spettrale. La "grande zucca" è un sigillo araldico misterioso. E la testa di un cavolfiore, sul basamento di una cassetta di legno, da verdura, rimane "testa", magari quella di un essere misterioso, fantarcheologico, alieno. La illuminazione va equilibrata, perché se è eccessiva diventa anche violenza; però, si chiedeva Goethe, perché potrebbe essere contro natura? Non può finire per superare la natura?

                      Mario Verdone

 

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